Rientro dickensiano

Quando sono arrivata ieri mattina il cielo era bianco. Ma non per dire. Proprio bianco fisso. Niente vento, niente nuvole che corrono, niente pioggia, se non quell’acqua che sempre ti cade addosso.

Mentre camminavo verso la banca mi stupivo di come trovassi tutto silenzioso. C’era gente in giro, i negozi aperti, la musica che usciva dalle porte spalancate. Eppure mi pareva tutto silenzioso. Devo ancora capire quanto questo silenzio che sento attorno è dato dal fatto che IO non parlo con nessuno e sono silenziosa.

Mentre camminavo verso la banca, dicevo, ho incrociato la mia maestra. La mia maestra è bravissima, bellissima e buonissima. Quando mi ha visto mi è venuta incontro e mi ha baciata (cosa che mi è parsa assurda, ma che oggi si è infine illuminata di senso) mentre rideva mostrandomi le borse dello shopping.

Mentre me ne tornavo dalla banca sono passata davanti alla strada dello studentato. Ero lì, con la mia bicicletta per mano, quando ho avuto uno di quei momenti in cui si percepisce nettissimo il senso dello scorrere del tempo. E mi è tornato in mente il 7 gennaio di due anni fa, appena arrivata a Turnhout.

Oh, se me lo ricordo!

Arrivai nel pomeriggio, da Charleroi. Il tempo era grigio e freddo. Scesi alla fermata in piazza, quella che fu soppressa due mesi dopo, cosa che interpretai come un chiaro segnale che era ora me ne andassi dallo studentato. Appena scaricata la valigia sentii la pioggerellina fastidiosa a cui mi sono abituata infilarsi dappertutto. Uno di quei momenti (e me ne sono capitati un sacco) in cui il pensiero che mi si forma in mente è uno solo e chiarissimo: sei da sola e non c’è nessuno con cui dividere questa fatica, quindi prendi in mano le tue cose e comincia a camminare.

Arrivai in studentato così, con il solito magone da rientro. Anche perchè, parliamoci chiaro, lo squallore del posto in cui stavo era sufficiente a fiaccare qualsiasi entusiasmo. Non conoscevo praticamente nessuno, tranne i due ragazzi con cui ero andata a bere un tè prima di Natale. Infilai la chiave nella toppa della porta esterna. E la porta non si aprì. Ci riprovai. Niente da fare. Confesso che in quel momento ebbi un moto di stizza. Non era rabbia o disperazione, era proprio fastidio. Come se le cose non fossero già abbastanza complicate! mi dicevo. Non ricordo ora bene come, ma alla fine entrai. Alla fine si combina sempre.

Mi sembra passato un secolo.

Dell’anno scorso non ricordo molto, faccio fatica a mettere a fuoco. Tornavo in una casa bella, questa volta. La mia. Non avevo un calendario nuovo da appendere in sala. Non avevo un sacco di cose. Ora non ricordo troppo bene.

Quest’anno è andata diversamente. C’è stata, nettissima, la sensazione di essere arrivata in un luogo altro. Inutile negarlo, non ero più in Italia. Ma insieme anche la sensazione che ci sia qualcosa, molto più di qualcosa, di me qui. Qui ci sono io che mi misuro con me stessa. Qui ci sono io da sola. Qui ci sono io che tutte le cose che ho, dalla lavatrice all’alberello di Natale da smontare, me le sono prese da sola e con il suo (bello) sforzo.

E il prossimo sette gennaio? Dove sarò? A fare cosa? Me lo domando e non ci penso neppure troppo. Per ora va bene così.

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