Bruiloft

Bruiloft vuol dire nozze.

Sì, sono stata invitata a nozze!

Siccome a noi ci piacciono le cose incasinate, sono stata invitata a 2 nozze. Che si svolgeranno nello stesso week-end. Una il venerdì sera e l’altra il sabato. Olè!

Ma andiamo con ordine.

Il matrimonio numero 1 è quello del mio collega K. Ora, il mio collega K. si meriterebbe un post a parte. Un capitolo nel libro della mia tesi di dottorato dal titolo “sociologia del laboratorio”. Quella che scriverò quando sarò uscita dal tunnel di questa. Ma non divaghiamo. Il mio collega K. si sposa con la sua bella, una ragazza con la quale sta assieme da 9 anni, convive da 2 e sta facendo la casa da 16 mesi. Evviva!

Il matromonio numero 2 è quello di due miei colleghi coristi, K. e D. soprano e tenore. Anche i miei colleghi coristi si meriterebbero un post a parte. Magari un giorno lo scriverò. Ho qui sul tavolo un pacco di fotocopie che sono i canti per la loro messa. Una messa di nozze di un’ora e mezza.

Nonostante tutte le interessantissime lezioni sul tema, che ci hanno allietato per i primi due mesi al corso di olandese, ancora mi sento carente in materia matrimoniale. Se ho più o meno un’idea di cosa succederà a grandi linee, sono i dettagli a mancarmi. E i dettagli, si sa, sono quelli che poi ti fregano.

Qui in Belgio il matrimonio religioso e quello civile sono separati. Prima ci si sposa “voor de wet” (= davanti alla legge) e poi ci si sposa “voor de kerk“. Prima si va in municipio, si firmano le carte, si beve un aperitivo offerto dal comune e si ritira un trouwboekje, un libretto dove verranno segnate le date di nascita dei figli, e poi, con l’attestato del sindaco in mano, si va in chiesa. Dopo la messa c’è una receptie, ovvero un pranzo seduto per de naaste familie, i parenti più prossimi. Poi c’è un secondo ricevimento, generalmente a buffet, nel quale si invitano invece anche gli amici e si balla. Sissignori, in un paese di timidi e generalmente imbacchettati abitanti, prima del taglio della torta gli sposi ballano. Cosa di preciso ancora non so, ma immagino qualche ballo lento.

Io, lo confesso, sto morendo di curiosità! E, confesso una seconda cosa, ho scoperto che i matrimoni mi piacciono. E non perchè mi danno una scusa per comprare un vestito nuovo o dei sandali rossi o per fare un salto dal parrucchiere (avete indovinato, queste cose non le faccio. Facendo mente locale stamattina mi sono resa conto che all’ultimo matrimonio a cui sono stata avevo un vestitino che comprai per caso a Reading in un pomeriggio di pioggia due anni prima, giusto perchè ero senza ombrello e in attesa del treno mi feci un giro tra i negozi, un paio di orecchini di mia sorella, una collana della mamma, e dei sandali e una borsetta rossa di mia zia Rosalba). Quello che mi piace, che mi diverte, è proprio l’idea in sè: la festa, le persone felici.

Al matrimonio dei coristi andremo, naturalmente, a cantare. Per inciso, emmenomale, chè un’ora e mezza di messa in olandese in religioso silenzio penso che avrebbe fiaccato discretamente il mio entusiasmo. Al matrimonio del collega solo alla parte danzante.

E qui cominciano i dolori, nel senso che, appresa la scaletta di massima… come funziona tutto il resto? In altre parole: cosa significa che si balla? Cosa si balla? Come? E non mi venite a dire che “no, ma non è obbligatorio” perchè lo so da sola che nessuno si aspetta che la prozia inferma si lanci nel charleston di mezzanotte. MA. Insomma, se bisogna partecipare bisogna partecipare! E come ci si veste? Fatta la tara alle solite paranoie femminili a cui si sommano le solite paranoie mie personali, be’, magari ci sono delle regole implicite che ignoro. Per esempio, lo sapete tutti, immagino, che ai matrimoni inglesi si Deve rigorosamente indossare un cappello. Non sto scherzando, non è una di quelle baggianate da film, no no no, è tutto vero. Ricordo che quando dissi al mio amico J. che ero alla ricerca di un vestito per le nozze di una mia amica e non potevo riciclare il precedente, mi suggerì per l’appunto di cambiare il cappello (“that’s my grandma strategy”). Quando gli confessai che in Italia quasi nessuno lo mette mi guardò sinceramente incuriosito. Quanto al regalo. Come usa? Nelle ultime partecipazioni che ho ricevuto c’era un numero di conto corrente. Ora, per me non c’è nessun problema a fare un versamento in conto, figurarsi. MA. Magari è considerato poco bello. Qui la lista di nozze, mi par di capire, non si usa tanto. E onestamente farei sul serio fatica a pensare ad un oggetto che i diretti interessati possano trovare utile/interessante/bello senza una lista. E nemmeno finanziare il viaggio di nozze pare un’opzione. Insomma, come ci si regola?

Provate voi a chiedere lumi ai locali! Quello che vi sentirete rispondere sarà, nove volte su dieci, “oh, è un matrimonio normale, si fa tutto normalmente“. Più o meno la stessa risposta che ebbi quando chiesi come si fa il caffè. “Oh, si compra un caffè normale al supermercato e poi lo si mette in una macchinetta normale…”

La vera sfida del dialogo interculturale, in definitiva, si gioca sulle piccole cose, quelle che ti spalancano davanti all’improvviso le distanze che non immaginavi. Perchè se ormai non facciamo più troppa fatica ad immaginare che qualcuno possa trovare deliziosa la pizza con l’ananas a fettine, scoprire che nessuno dei vostri 32 colleghi sa cosa sia una moka riesce a farvi sentire decisamente spaesati.

Ma ho due mesi per imparare tutto. Nel frattempo, viva gli sposi!

Cose che danno tutta un’altra luce al lunedì

Arrivare in ufficio e trovare nella casella di posta una mail del mio capo.

In risposta ad una mia mail spedita il venerdì prima di andare a casa. Una mail in cui, scusandomi per l’olandese pasticciato, mi impegnavo a fare una proposta per “migliorare la produttività” (ok, ok, non ridete. A me non fa ridere proprio per niente, ma immagino che se il mio capo va poi ad una riunione di capi con un sovra-capo e può esibire i dati che dicono che tutti nel suo gruppo hanno fatto almeno una proposta, be’ evidentemente questa cosa avrà il suo peso. Sono quelle cose che tra capi si confrontano. Come guardare chi ha l’orologio più caro, o la macchina più figa).

La mail del mio capo esordisce con un laconico Grazie.

Seguito però da una frase buffissima : “Het Nederlands is voortreffelijk!”

Siccome sono curiosa chiedo a Luc, senza spiegare il contesto, cosa significhi. Mi risponde, immedaitamente, senza pensarci due volte, con una definizione chiarissima, “uitzonderlijk goed”, che suona più o meno come “eccezionalmente buono”.

Confesso, scusate il momento di sbruffonaggine: mi sono sentita ganza.

Anche se poi all’esame non sono riuscita a ricordare come si dicesse “stacca la spina dalla presa, durante il temporale” (per la cronaca, nel caso qualcuno se lo stesse domandando, è “haal de stekker van het stopcontact uit, als het omweert!”).

E domani è un altro giorno…

Prove di dialogo

Una delle cose che stupidamente mi mettono più allegria sono le manifestazioni spontanee di simpatia e entusiasmo dei belgi.

Come dice il mio libro, e come direbbe Natalino Balasso, “essi Belgi sono un pochino serài”, een beetje gesloten. Ma naturalmente tutto sta a trovare la chiave.

Una di queste chiavi è, ça va sans dire, la lingua. Un po’ perchè magari non tutti si sentono molto sicuri di sè e parlare una lingua straniera con una straniera è ancora più destabilizzante. In parte anche perchè il desiderio, lo sforzo di imparare la lingua lo percepiscono come un enorme passo verso di loro.

Così oggi stavo cercando di convincere D. a parlarmi in olandese, cosa non facile, visto che abbiamo cominciato a parlarci in inglese e cambiare lingua è un po’ come  doversi ricominciare a conoscere da zero, percepisco sempre un leggero imbarazzo. Subito mi ha detto che sì, lo parlavo già bene, ma questa tiritera ormai mi ha stancata anche un po’. Ce l’ha fatta fino al building 120, abbiamo chiacchierato un po’, mi ha parlato delle membrane e dei loro studi. E poi ad un certo punto è tornato a galla l’inglese.

Ci ho riprovato con W., con il quale ho sempre avuto rapporti per iscritto, per cui mi dava l’idea che fosse più facile ricominciare in olandese. Gli ho scritto questa buffa e-mail che esordiva con gli auguri di buon anno e chiedeva lumi sui risultati di certe misure e mi sono vista arrivare una risposta che suonava incredibilmente entusiasta, di quelle con tre punti esclamativi (uitroeptekens). Se non li conoscessi direi che sono un popolo estremamente espansivo! A volte mi piglia il sospetto che si lascino andare particolarmente con me perchè tanto sono straniera e con me probabilmente non suona strano.

Poi c’è K., sul quale dovrei scrivere un capitolo a parte. K. che ha impiegato una vita ad accettarmi come parte del suo mondo. K. che, come avevo immaginato, quando si è sbloccato mi è venuto a raccontare fatti suoi che secondo me non racconta nemmeno ai colleghi. K. che incrocio in corridoio ieri e al quale chiedo “vai a fumare?”, che mi risponde alzando il mento e poi aggiunge con un inaspettato sorriso “vuoi venire?”. Al che io non riesco a trattenermi, scoppio a ridere e vorrei dirgli che ci sono meno otto gradi fuori, e la neve e che ho altro da fare e cosa ci faccio lì accanto a lui che fuma in un prevedibile silenzio e soprattutto cosa cavolo dovrebbe significare questo invito? Perchè gli inviti qui mica sono a caso, eh! “ma io non fumo!” “non importa, vieni per compagnia”.

Ecco, per compagnia. Ho avuto un dejà-vu.

E ho pensato che forse è questo che dovrei fare nella vita: cercare la chiave.

La neve!

Quassù nevica. Aveva ragione il mio libro di olandese a volerci insegnare tutti i termini relativi al maltempo!

Ieri pomeriggio verso le quattro l’ansia sottile e silenziosa dei Belgi si è impossessata anche dei miei colleghi e c’è stato un discreto fuggi fuggi generale.

Tutto ciò faceva presupporre una perfetta organizzazione nell’affrontare la nevicata oggi. Macchè! E’ questo il mio terzo inverno qui e per la terza volta ho sentito ripetere la frase “siamo abituati alla neve, ma non ce ne aspettavamo così tanta“. Poi la solita tiritera di autobus in ritardo o meglio ancora soppressi e pellegrinaggi verso il luogo di lavoro a passo d’uomo.
In realtà io la prendo con filosofia perché penso che la neve quando viene viene. E non serve agitarsi tanto per dei rischi ipotetici, partire dal lavoro un’ora prima per arrivare a casa sani e salvi e poi… non spargere il sale sulle strade!

Quando ieri sera ha cominciato a cadere la neve e si sentiva nell’aria questo strano silenzio, un silenzio più denso e completo del normale, io sono stata presa dalla solita mezza euforia dei bimbi. Non lo so perchè, ma essere in camera in pigiama a fissare fuori dalla finestra i fiocchi di neve svolazzare qua e là mi trasmette sempre una sensazione di meraviglia. Come l’attraversare per prima stamattina il parcheggio coperto di neve, e vedere solo le mie impronte affondare in questa coperta bianca enorme.

O forse è la solitudine che acutizza certe sensazioni.

Gamma

Come forse alcuni di voi sapranno già, il ragazzo che abitava qui prima di me e che si è trasferito in un posto che è ancora più piccolo di Beerse, a 3 km da qui, ha deciso di cambiare divano e di regalarmi il suo divano vecchio e le sue poltrone. Però me le devo andare a prendere da sola. Non so come farò, visto che il divano è lungo 2.08 m e in ascensore non ci entra. Mi sa che quello se lo terrà. Però magari per le poltrone ci si può fare un pensiero.

Siccome secondo me si è impietosito della mia situazione di povera fanciulla sola nel mezzo della Kempen, mi ha persino suggerito dove potrei andare a noleggiare un furgone per il trasporto.

Il nome di questo posto è quello del titolo.

Stamattina ci sono stata.

Sono riuscita a salutare il commesso in olandese e poi a fargli la magica domandina e cioè se parlasse inglese, perchè non sono ancora in grado di spiegare una cosa del genere in lingua locale. Lui mi ha sorriso tutto orgoglioso e mi ha detto “of course!” e così ho esposto la situazione.

Mi spiega il perchè e il percome e che devo fare una tessera e che è gratis e bla e bla. Mentre compilo il formulario per avere questa tessera, lui sta lì a fissarmi mentre scrivo, perchè devo essere un soggetto davvero curioso. Legge il mio nome. Mi chiede di dove sono. Gli dico che sono italiana.

E indovinate un po’? Tutto contento esclama: “Ho avuto una ragazza italiana!”

Poi naturalmente mi racconta di dove e come si chiamava e che era una relazione a distanza e non era facile. Ed è tutto contento. E mi parla dell’Italia, e io gli dico “maddai!” e intanto penso che il mondo è strano, eh.

Intanto, grazie all’ex-morosa italiana sono sicura che non si dimenticherà di me quando la prossima settimana andrò a reclamare il furgone!

Hoogstraten

Il posto del titolo è un paesino (“una città!” come mi ha detto Dominic, perchè ha una chiesa cattedrale) dove siamo andate a passare una fredda e piovosa domenica di inizio giugno.

Si tratta essenzialmente di una strada con un agglomerato di case attorno. Tra queste case c’è però un piccolo, raccolto e struggente begijnhof (si pronuncia be-ghèen-hof) di case pitturate di bianco e gerani rossi ai davanzali, e una torre campanaria alta non-ricordo-più-bene-quanti-ma-tanti metri. Questo campanile è il vanto della cittadina, che per il resto non ha assolutamente nulla tranne casette residenziali dall’aspetto pittorescamente belga. Però questo campanile fu abbattuto dalle truppe tedesche in ritirata e, come sempre accade, voluto esattamente identico a prima nello stesso posto e con le stesse pietre, dagli abitanti del posto. Il chè ne fa un monumento.

Lungo la via centrale del paese, all’inizio di giugno, si svolge una processione con trasporto di varie statue sacre e di una reliquia con il sangue di Gesù (Heilig Bloed è il nome di questa ricorrenza). Una domenica percorrono la strada in un verso, la domenica successiva tornano indietro, mi spiega Dominic. Questa bella cosa che, diciamolo sottovoce, non è altro che una sagra di paese, non poi così inconsueta per un qualunque italiano, non dura tutta la settimana da una domenica all’altra. Dura una domenica, la successiva e il mercoledì che ci va di mezzo. Solo il mercoledì. Ma il mercoledì, ragazzimiei, dev’essere una giornata folle se la mia collega Narda mi dice che quand’era ragazza stava fuori fino all’alba e si prendeva sempre il giovedì di ferie.

Insomma, la mia collega Narda, proprio lei, mi aveva parlato lungamente di questa cosa. Oddio, lungamente. Diciamo per un paio di minuti. Che è più o meno la metà di tutto il tempo che abbiamo parlato insieme nell’ultimo mese. Poi però venerdì scorso era tornata alla carica con questa storia della processione. Ed era talmente decisa che è arrivata a prendere un foglio, lasciarmi il suo numero di telefono (cellulare e casa) e indirizzo e persino a disegnarmi una piantina che mi mostrasse l’esatta ubicazione della casa. E a dirmi “chiamami quando arrivi se non sai cosa fare”.

A quel punto sottrarsi era diventato quasi impossibile.

Così stamattina, sotto la pioggia battente delle 11, abbiamo preso l’autobus che ci ha portate fino a H. Lì abbiamo camminato per un po’ sotto la pioggerellina e in mezzo al freddo, perchè la mia collega Narda non rispondeva al telefono.

Come nelle migliori tradizioni sono stata fermata prima da un uomo e poi da un’anziana signora che “excuseer mevrouw, mag ik iets vragen?” volevano delle indicazioni stradali. Ho scoperto di essere capace di dire “Non ho idea, non sono di qui. Mi dispiace” con discreta fluidità! Abbiamo esplorato le giostrine ancora vuote e il begijnhof e poi la chiesa e poi il chioschetto di frittelle e patatine e poi abbiamo deciso di andare a scaldarci da qualche parte. La parata ce la siamo persa, evidentemente.

Dopo pranzo, uscite dal jachthoorn (il corno di caccia), dove eravamo state accolte da un gioviale ragazzone fiammingo che ci ha dato 30secondi esatti per scegliere cosa volevamo mangiare e poi altri 30secondi e alla mia richiesta ” twee minutjes” è tornato dopo due minuti esatti, ecco, dopo questo simpatico siparietto, che non crediate siano solo gli italiani che si divertono a far gli scemi con le straniere, mentre usciamo mi vedo la mia collega Narda al baracchino delle frittelle.

Vado a salutarla e lei mi guarda tutta contenta e la prima cosa che mi chiede è “vuoi venire a casa nostra?”. Presa un po’ in contropiede non so cosa dire, poi si avvicina il mio ex-collega Dominic, che sarebbe suo marito e io boh, penso che se ti invitano si deve accettare.

Perchè voi non avete davvero idea di cosa significhi essere invitati a casa. E’ un passo enorme, è un salto pazzesco, è un ti consento di essere una di noi, è una cosa Grossa.

Con loro ci sono i due bimbi di 7 e 4 anni, che ci scrutano e ci guardano e si avvicinano e fanno quello che fanno tutti i bambini a tutte le latitudini, stringendo i premi vinti alla pesca, degli oggetti dall’aria di cose che si romperanno entro le prossime 24 ore.

Non mi dilungo a raccontare di come siamo state accolte a casa loro, chè ci sarebbe da ridere e piangere allo stesso tempo.
Credetemi se dico che è vero quello che si dice a proposito dell’ospitalità italiana. Che non ha paragone.
Credetemi se vi dico che comunque a me non importa se non mi hanno dato altro che un bicchiere d’acqua e crisps in una ciotolina. E se ad un certo punto ci hanno detto che ci accompagnavano a casa. E se in un battibaleno eravamo fuori di casa e io non ho manco avuto il tempo di salutare il mio ex-collega Dominic che mi sta dando una mano pazzesca anche se non lavora più con me. E se non ho potuto dire ciao ai bimbi che non hanno fatto altro che saltare sul tappeto davanti a noi tutto il tempo, simulando il volo di un elicottero e poi di un aereoplano (vligtuig) mentre si tuffavano dalla poltrona e mostrarci tutti i dvd che possiedono (per fortuna pochi) illustrandoci di ognuno i notevoli pregi e invitandoci a sceglierne uno da guardare sul momento e passarci e ripassarci davanti con le ciotoline di patatine offrendocene una, e raccontaroci altre cose della loro intensissima vita. In olandese, naturalmente.

Perchè comunque alla fine Rick mi ha dato un foglio verde sul quale aveva incollato degli adesivi. Adesivi di parti di macchine e camion e bilichi e trattori e gru.

Una cosa, semplicemente, commovente.

Ah, comunque la processione, abbiamo scoperto, non s’è fatta. Causa pioggia. Che scarsa serietà!

Meteo

Lo stato di colpevole abbandono di questo blog è imputabile decisamente alla sensazione che sempre mi accompagna ultimamente di non aver fatto abbastanza e non abbastanza bene.

Però di cose quassù in Belgio ne sono successe tante, eh gente! Tante che infatti non so da dove cominciare. Forse potrei partire dal fatto che il bambino di Joeri sembra non avere grossi problemi. O forse è lui che ha preso la cosa molto positivamente. E’ un papà molto positivo.

O forse potrei aggiornarvi sui miei magnifici progressi nella lingua olandese, progressi che al momento mi danno soddisfazioni per lo più a lezione e molto poco fuori da lì. Ho fatto il primo test e l’ho passato bene. Hoera!
Un giorno avevo detto ad un mio collega che insomma, stavo seguendo questo corso, e avevo imparato a dire qualcosa, ma non si aspettasse che sia già in grado di fare una prolusione sull’importanza della cristallizzazione in ambito industriale come metodo purificativo. O peggio, che sia in grado di parlare dei miei sogni e aspirazioni e di come sia la vita in Italia eccetera. Lui mi ha confessato che siccome qua tra di loro si parlano sempre in dialetto probabilmente non mi sarà molto utile. Ma, ecco, la cosa buffa è stata che siccome gli ho detto che dovevo fare questo test, allora ogni mattina appena arrivata c’era qualcuno che mi chiedeva come fosse andata. Sicchè alla fine ho fatto i biscotti, glieli ho portati e gli ho detto che erano per festeggiare il fatto che io avessi preso un buon punteggio. E loro hanno cominciato ad applaudire e a dire “brava!” e cose come “sicuramente hai fatto meglio degli altri” e a scandire “hoe oud ben jij?” ridendo come matti. Insomma, mi amano come la loro figliola, mi pare. A volte pure troppo!

Ma magari potremmo anche parlare del fatto che siamo alla fine di aprile e ci sono 6 gradi e fa freddo e io due settimane fa ero già pronta a portare la giacca a vento impermeabile in lavanderia per chiuderla nell’armadio, ma no, that’s Belgium!

O del fatto che nell’ultima settimana mi sono lavata con acqua piovana ogni volta che uscivo in bicicletta. Fiets. Bicicletta. Qui noi si vorrebbe la primavera, eh! Lente! Primavera!

Ik kom uit de Dominicaans Republik

Stasera al corso eravamo in 27. L’avevo detto che ho cominciato il corso di olandese, no? Allora vi racconto una barzelletta.

C’erano una sera 1 filippina, 1 russa, 7 polacchi, 10 rumeni, 1 ukraino, 1 afgano, 1 dominicana, 1 armena, 2 portoghesi e 1 congolese.

E un’italiana, naturalmente.

E stavano tutti a farsi caldo in un’aula della scuola per tre ore. E si ripetevano l’un l’altro: “Hoe heet jij?” “Ik heet Nelli. En jij?” “Ik heet Marcin” “Aangenaam!” “Aangenaam!”

“Uit welk land kom jij?” “Ik kom uit Polen. En jij?” “Ik kom uit Afganistan”

Io non lo so quanto olandese imparero’ da questo corso. Però mi diverto un sacco a guardare i miei compagni di sventura. C’è un gruppetto di rumeni che ridacchia ogni volta che alla domanda “come vieni a scuola?” si risponde “te voet”. Ce n’è uno che mi dice “my Italian colleague!” ogni volta che mi vede arrivare in bici. C’è il ragazzo che sta qui da tre anni e che parla in olandese con la maestra, ma mi ha detto che è qui perchè vuole imparare bene la lingua. Ci sono le due ragazze rumene tanto carine, la mia omonima ossigenata (polacca) con il suo ragazzo (rumeno). C’è la signora filippina che è un donnone (è piccola, ma ben tarchiata) dal piglio deciso che più che parlare sembra che sputi le parole “Ik… ben… Marcelina! Aangenaam!!!” e la mia vicina armena che parla 5 lingue ma mi dice che l’olandese non riesce proprio ad impararlo.

E poi stasera c’era questa ragazza dominicana bellissima, che si chiama Catelin. Un autentico splendore, con questo viso da bimba.

Io me li guardo, mentre a turno ripetono “Ik ben Emanuela. Dit is Anja. Hoe heet jij?”, e penso… ad un sacco di cose.

Dall’Italia

Stasera sono passata a nell'officina dove Ilaria aveva comprato la bici perchè un'anima pia ci desse un'occhiata. La mia bici non è dura, è molto peggio, ma ho sempre fatto un po' finta di non accorgermene. Quando ieri sera, però, di ritorno dalla palestra, ho sentito i pedali saltarmi sotto i piedi, ho capito che no, basta scuse: bisogna farci qualcosa.
Così stasera, sotto il quasi-temporale delle sette, sono scesa in officina con la mia creatura al seguito.

E ho conosciuto il signor Piero.
Il signor Piero parla italiano come lo parla chi lo conosce da sempre, ma ha uno strano accento. Mi è già capitato di notare come gli italiani di seconda generazione parlino un italiano dal suono buffo. Non è l'italiano di uno straniero che l'ha imparato, ma non è nemmeno un italiano regionale ben definito. Si sente un forte accento dialettale, ma di tanti dialetti tutti insieme. Spesso questi italiani-all'estero hanno frequentato altri italiani-all'estero di altre regioni e la cadenze si mischiano, in un impasto che suona familiare eppure stravagante.
Ma il signor Piero, dicevo.
Il signor Piero è a Turnhout da 35 anni, da quand'era bambino. Mi dice che "qua la civiltà ce l'abbiamo portata noi, ce l'abbiamo portata! Che quando siamo arrivati ci guardavano tutti come a dei marziani". Non stento a crederlo, visto come guardano me i miei coetanei in ditta.
Il signor Piero mi racconta della sua famiglia, del nonno, del prozio, e intanto mi controlla la pressione delle gomme e la catena. Mi parla dei suoi viaggi in Italia. Mi chiede cosa ci faccio qui, mi chiede di dove sono e mi sfida a riconoscere il suo accento. Gli dico che mi pare un accento del Sud, ma non saprei dire di più.
"Sono della Calabria!"
"Ah, è calabrese! E di dove?" (so che alla gente piace sempre dire di dov'è)
"Di Cosenza"
"Di Cosenza? Ma io ho un'amica di Cosenza!" (Francesca, se ti fischiavano le orecchie ero io che ti pensavo).
Il signor Piero mi parla dei signori Marangon e del loro ristorante sulla piazza. Della pizzeria di un signore tarantino dietro il vicolo, di una signora veneziana ("di Venezia proprio") di nome Mariagrazia..

Il signor Piero voleva chiacchierare. A me capita spesso di incontrare gente che mi vuole raccontare la sua vita. E io me la faccio raccontare, perchè alle confidenze è difficile sottrarsi.
Esco dopo mezz'ora con un sorriso enorme e una strana sensazione di malinconica tenerezza e di ammirazione per questi italiani-stranieri.

E se volete avere un'idea di quanto patetiche e ridicole siano certe sparate leghiste, fatevi un giro oltre confine. Di italie ce ne sono mille, sul serio. Ma son tutte la stessa.

New entry

E' arrivata Isabel. Frastornata e stanca dal viaggio. Accaldata. Mal di stomaco. Oki. Pillola. Pita. Aglio nelle salse.
Ha cenato da me. Mi ha parlato di cibo tutto il tempo.
E penso che tutti i vicini abbiano capito che ho una nuova amica italiana: un volume così non si era mai sentito in questa casa!
Ha quasi perso la voce, si è accorta di non avere lo spazzolino, mi ha chiesto se ci vediamo domani, ha preso paura perchè non riusciva ad aprire il cancello per entrare a casa. MI ha confessato di non sentire più il mal di schiena, merito della "serata insieme". Poi si è resa conto che domani è venerdì e, ecco, io dovrei anche andare a lavorare. Così alle undici e mezza ci siamo finalmente salutate mentre il cancello del Begijnhof si chiudeva davanti a me.

Per il resto, il tempo è splendido, c'è il sole, si sta bene, il mio capo stressa, ma non solo me, S. è di buonumore e stamattina Kurt mi ha persino tenuto la porta aperta (nove mesi ci sono voluti, no-ve-me-si, ma ora Mi Saluta).
Quest'ultima settimana ha proprio dato la svolta.

E quando tornavo a casa pedalando sotto le stelle pensavo ad un'altra pedalata, ad un'altra ragazza salutata sulla porta di casa, ad un'altra aria, ad un'altra valigia da chiudere. Qualche mese fa. Tre, più o meno.

Un altro giro di giostra.